Mafia, Rocco Greco denuncia i boss, lo Stato lo punisce: suicida l’imprenditore antiracket

GELA – “Denunciare i boss del pizzo mi è costato caro”, ripeteva alla moglie negli ultimi tempi. Rocco Greco, l’imprenditore simbolo della lotta al racket nella frontiera di Gela, si è sparato un colpo di pistola alla tempia. “Era finito dentro una storia paradossale”, sussurra il figlio Francesco. “I mafiosi che aveva fatto condannare lo avevano denunciato. Ma, poi, ovviamente, era arrivata l’assoluzione. Il giudice aveva ribadito che Rocco Greco era stato vittima della mafia, non socio in affari dei boss”. Ma non è bastata una sentenza di assoluzione.

Nell’ottobre scorso, il ministero dell’Interno ha negato alla ditta dell’imprenditore gelese, la “Cosiam srl”, l’iscrizione nella white list per i lavori di ricostruzione dopo il terremoto in centro Italia. “Nel corso degli anni ha avuto atteggiamenti di supina condiscendenza nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata gelese”. Questo ha scritto la “Struttura di missione antimafia sisma”. “Ma come si fa a dimenticare che aveva denunciato?”, ripete l’avvocato Alfredo Galasso, storico legale di tante parti civili a Palermo. “Proprio con la denuncia aveva scelto di non essere più supino a quel sistema che vigeva a Gela”.

Nel 2007, Rocco Greco non solo aveva denunciato i boss della Stidda e di Cosa nostra che si dividevano il pizzo. Aveva anche convinto altri sette imprenditori a fare la sua stessa scelta. “Era la primavera di Gela – dice oggi il figlio – mio padre ne andava orgoglioso. Ma non era stato affatto semplice. All’epoca, però, si respirava un’aria nuova in questa parte di Sicilia, anche grazie all’allora sindaco Rosario Crocetta”. Le denunce di quegli imprenditori fecero scattare undici arresti nel blitz ribattezzato “Munda mundi”. E dopo gli arresti, le condanne per 134 anni. Una sentenza che anche la Cassazione ha confermato. Ma nelle vene dei processi sono rimaste le accuse degli imputati, che hanno sempre cercato di gettare ombre su chi li aveva portati in carcere. “Ma quale pizzo, gli imprenditori pagavano il nostro sostegno. E spartivamo gli utili”.

Una tesi smentita in tutti i gradi di giudizio. Gli imprenditori erano vittime. Ma vittime – osserva il Viminale – che si erano relazionate con i boss, che avevano accettato il prezzo del pizzo. “C’è il rischio di infiltrazioni mafiose nell’azienda”. Parole pesanti. Ma il figlio di Rocco Greco ribadisce l’importanza di quella denuncia fatta dal padre: “Non dobbiamo dimenticare cos’era Gela all’epoca. Più di cento morti in un anno. E veniva ucciso anche chi non pagava il pizzo”.

Dopo l’ultima interdittiva antimafia, un mese fa, sono arrivate le revoche di tutte le commesse pubbliche e private per la ditta di Greco, che si occupa di lavori edili. “Sono stati licenziati 50 operai”, dice Francesco Greco. Intanto, l’imprenditore provava a ribadire le sue ragioni con una serie di ricorsi. Ma il Tar di Palermo non ha concesso la sospensiva dell’interdittiva (anche il Tar Lazio aveva dato disco verde al Viminale). “Il giorno dopo, il 26, siamo andati dall’avvocato per un ulteriore ricorso”, racconta ancora il figlio. “La sera, papà era euforico. Mi sembrò strano. Diceva: che bella serata stiamo trascorrendo. Non capivo”.

Mercoledì mattina, Rocco Greco si è svegliato alle 5,30. Ha detto alla moglie che andava in azienda per guardare alcune carte. Tre ore dopo, sono arrivati Francesco e gli altri dipendenti. “Mio padre non era in ufficio. Mi sono insospettito. Anche perché aveva lasciato la fede e l’orologio a casa. Abbiamo iniziato a cercarlo. Era dentro un container, poco distante, in una pozza di sangue”. Rocco Greco non ha lasciato neanche un biglietto. Dice il figlio: “Qualche giorno fa, aveva ripetuto a mia madre: “Ormai, il problema sono io. Se vado via, i miei figli sono a posto”. FONTE (repubblica.it)

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